Possiamo considerarci ancora all’interno di un percorso che in questi ultimi due mesi ci ha catapultati da un momento di emergenza sanitaria, a un rischio di tracollo economico e sociale, fino a un desiderio condiviso di rinascita e cambiamento.
Tra la miriade di emozioni e sentimenti che abbiamo cercato di gestire, c’è ancora una paura che tentiamo faticosamente di dominare: si chiama solitudine.
Ulteriormente amplificata dalla richiesta di rispettare il distanziamento sociale imposto dalle autorità per arginare il rischio di contagio da COVID-19.
La solitudine diventa ora un fattore determinante che sposta il focus della comunicazione da una comunicazione interpersonale a quella “intrapersonale”, ovvero al dialogo con noi stessi.
E’ qui che incontriamo l’interlocutore più difficile da guardare negli occhi e impossibile da manipolare.
Questo specchio impietoso può mostrarci in un attimo tutta la nostra bellezza, oppure rivelarci le nostre ferite, paure, insicurezze.
Come in un film dell’orrore, da quello specchio può saltar fuori improvvisamente qualsiasi mostro sconosciuto. In tanti abbiamo vissuto questa rivelazione, ma la buona notizia è che ora siamo qui. Più forti e più consapevoli di prima.
E’ stato importante comprendere quanto i nostri affetti siano fondamentali e quanto la distanza fisica può essere vissuta con serenità solo se è una nostra scelta.
Quando invece diventa un’imposizione, giocare un gioco di cui non abbiamo deciso noi le regole, diventa una fonte di stress e disagio.
Se lo scambio di messaggi è semplicemente passato dalla modalità del contatto in presenza a quella tramite strumenti tecnologici, c’è una parte del processo comunicativo, quella del contatto fisico, che non può essere sostituita in alcun modo.
E’ attraverso il nostro sguardo e la nostra pelle che costruiamo intimità e relazioni profonde.
Ci sono sensazioni ed emozioni che una video chiamata non potrà mai trasmettere. I bambini si toccano, si sporcano le mani mentre giocano, si danno gli spintoni per fare amicizia. Gli animali si annusano.
E noi?
Abbiamo bisogno di quello sguardo profondo e non mediato da uno schermo, di quella carezza autentica che trasmette calore, di quell’abbraccio che consola e che avevamo dato per scontato.
LE REGOLE DELLA PROSSEMICA
Quei 50 centimetri che definivano la distanza “intima” del nostro interlocutore sono aumentati portandoci all’interno delle convenzioni della distanza sociale. Questo cambia tutto. Destabilizza, ridefinisce lo scambio comunicativo, fino a quando le nuove regole non diventano un’abitudine.
“Sai che ti amo ma ti vedo come un estraneo”. “Vorrei essere cordiale ma non ti stringo la mano”
A cambiare non è solo la forma della comunicazione; è anche il vissuto! Attenzione, quindi ad acquisire come normali le nuove abitudini che inevitabilmente influenzeranno le nostre relazioni!
NON SARA’ PIÙ COME PRIMA?
Si dice che 21 giorni siano il tempo necessario per creare una nuova abitudine. Quindi in questi due mesi abbiamo imparato a non aver più bisogno di quella carezza? In futuro ci guarderemo l’un l’altro con la diffidenza con cui si guarda una persona sconosciuta e pericolosa? Non ci toccheremo per proteggere la nostra salute?
La nostra salute non è soltanto quella fisica, è anche quella emotiva. Le buone relazioni rafforzano il nostro sistema immunitario.
La comunicazione interpersonale non è fatta di sole parole.
E’ soprattutto scambio di emozioni, significati, conoscenza e valori condivisi. Davvero possiamo fare a meno di sentire il respiro del nostro amico accanto a noi? Il suo cuore che trema per l’emozione? Il profumo dei suoi capelli e della sua pelle? Davvero vogliamo mangiare quella pizza senza poter rubare quello spicchio dal suo piatto?
Comunicare è anche vivere intensamente… nell’unico modo in cui vale la pena di vivere!
Stefano Pigolotti